The Japanese House. Architettura e vita dal 1945 a oggi

MAXXI 9 novembre 2016 - 26 febbraio 2017

«Non vi ho mai confidato sino a che punto le stampe giapponesi siano state per me fonte di ispirazione. Non mi sono mai liberato dall’effetto prodotto dalla prima impressione che mi procurarono e probabilmente non me ne libererò mai. Era l’incedere della grande dottrina della semplificazione, dell’eliminazione di tutto ciò che è insignificante».

Così Frank Lloyd Wright si esprimeva a proposito di un’arte, e indirettamente di una cultura, che sin dai tempi del post-impressionismo aveva impregnato di sé il vecchio continente. La ricerca dell’essenzialità, l’eliminazione del superfluo, la perfezione nella semplicità sono principi che hanno finito col guidare tutta la ricerca del secolo passato tanto nel design quanto nell’architettura e che potremmo dire essere, oggi, il mantra di multinazionali come Apple. I progetti esposti nella mostra The Japanese House, in corso al MAXXI (Museo delle Arti del Ventunesimo Secolo), sembrano così essere quasi fuori luogo, immersi nell’esuberanza degli spazi di quel museo plasmato dalla recentemente scomparsa Zaha Hadid. Un’essenzialità che stride e quasi graffia le pareti di quelle gallerie senza fine; un’essenzialità che, proprio per questo, emerge come a contrasto. L’allestimento è schietto ed efficace – una stampa giapponese, per l’appunto – seguendo un ordine cronologico che attraversa gli ultimi settant’anni di storia del Giappone e che cerca di raccontare, soprattutto, come sia avvenuto quel radicale processo di globalizzazione che ha conseguito un profondo cambiamento sociale nell’impianto – fisso e altamente formalizzato – della classica famiglia giapponese.

La mostra, che presenta circa ottanta progetti di architetti giapponesi più o meno famosi al grande pubblico, ha il suo principale punto di forza nel connubio tra modello e disegno. Alle pareti brevi note esplicative mettono a fuoco il cuore di ogni progetto, quel concept che ne è stato la guida, e mostrano piantine e progetti. Di fronte, volgendoci al centro della galleria, si possono ammirare i corrispettivi modellini tridimensionali degli edifici, modellini più o meno concettuali. Il visitatore viene così a trovarsi tra due fuochi opposti, divenendo il medium tra la realtà bidimensionale della parete e quella materiale della maquette. Affascinante è proprio la varietà e diversità dei modelli stessi, che di per sé costituiscono un piccolo campionario del modo di affrontare questa tematica architettonica. Si passa da dettagliati modelli in legno come nel caso della S house all’essenziale struttura metallica della House in a plum grove, passando per un modello, quasi fumettistico, come quello della Moriyama house di SANAA.

Molti i nomi delle cosiddette archistars presenti, anche se appare evidente come, a causa dell’indole propria dei giapponesi, la notorietà stessa di un architetto nipponico sia di per sé assai meno ostentata di quella dei colleghi europei ed americani. Un atteggiamento che si riflette così nei loro progetti, soprattutto di edilizia residenziale privata. Un’architettura di ricerca e innovazione, ma mai gridata, sperimentale ma attenta alla memoria della tradizione, un’architettura dal contegno zen. Esemplare, in questo, la Casa Azuma di Tadao Ando: il suo linguaggio, austero, si costruisce tutto sul cemento armato faccia-vista, che ben si sposa con la location della mostra. Lo stesso modello esposto sembra non avere nulla a che fare con l‘ariosa NA house dell’architetto Fujimoto, che la fiancheggia; eppure, sorprendentemente, si riesce a cogliere un sostrato comune, una chiara matrice giapponese che ne svela radici comuni. Sono rami di uno stesso albero.

Una mostra che, di fatto, è un vero e proprio viaggio nel paese del sole nascente, che racconta un diverso modo di approcciare alla vita e al contempo di vivere lo spazio domestico in relazione alla città. Una mostra che si lascia apprezzare positivamente soprattutto per la sua chiarezza espositiva, pensata da architetti a beneficio di tutti.