Biennale di Architettura? C'era una volta...

Venezia 28 Maggio-27 Novembre 2016

Una donna appollaiata sugli ultimi gradini di una scala, intenta a contemplare la vastità del deserto: è questa l’immagine simbolo della quindicesima biennale di architettura. Un’immagine che potrebbe ricordare tanto scenari surrealisti quanto le ‘cosmicomiche’ atmosfere di Italo Calvino, ma che scopriamo, visitando la mostra, avere un significato molto più semplice. Si tratta dell’archeologa Maria Reiche, la cosiddetta “signora delle linee di Nazca”. Questa scienziata ha dedicato interi decenni allo studio degli enigmatici segni peruviani, forse la più antica opera di land art della storia. Uno studio che ha portato avanti sfidando anche la scarsità dei mezzi e arrivando a trovare soluzioni ‘casalinghe’. La scala, che vediamo ritratta nello scatto, rappresenta così un’alternativa economica e praticabile al noleggio di un piccolo aeroplano, unico altro mezzo con cui è possibile ottenere una visione aerea del sito, indispensabile alla comprensione delle stesse linee Nazca. Questi filari di sassi nel deserto peruviano appaiono dal basso senza senso e solo visti dall’alto rivelano il segreto delle loro figure zoomorfe.

La medesima sensazione di chi ammira il deserto dal basso accompagna il visitatore lungo gli spazi espositivi di questa biennale di architettura, come se di fatto gli mancasse una scala su cui arrampicarsi per cogliere dall’alto il disegno complessivo. Il tema proposto da Alejandro Aravena (Reporting from the front) lascia volutamente ampi margini di interpretazione, forse troppi; le risposte molteplici, e in alcuni casi forse lontane dalle intenzioni dello stesso curatore. Cos’è questo fronte di cui bisogna portare testimonianza? Tema ricorrente è la questione dei migranti che si ripropone in più di uno spazio espositivo e che sposta il tema, prettamente architettonico, su una pressante tematica sociale che sta mettendo in ginocchio l’Europa. Certo, viene da chiedersi se non vi sia anche una punta di presunzione in questa volontà di demandare all’architettura la soluzione di un problema che è di natura principalmente politica e che dalla politica in primis dovrebbe essere risolto. La soluzione non è certo quella di migliorare i luoghi di accoglienza, ma di lavorare in maniera comunitaria affinché questi non si rendano più necessari.

Il più interessante racconto proveniente da questa ‘trincea architettonica’ sembra, così, essere offerto da realtà più materiali e tangibili che condividono la tematica di una tipologia costruttiva, quella della volta.

Nelle Corderie dell’Arsenale attraversiamo, con sorpresa, lo spazio racchiuso dalla volta Armadillo, elegante manufatto realizzato dal Block Research Group (ETH Zurich). Questa volta in pietra, assemblata a secco sul posto, è il frutto di una tecnologia costruttiva antica coniugata alla più moderna progettazione informatica. Una prototipazione parametrica che, a partire dalla forma della superficie prescelta, ne permette la tassellazione in blocchi tridimensionali, blocchi che verranno successivamente tagliati da macchine a controllo numerico. La finitura dei conci, liscia nell’estradosso e  assolutamente irregolare bella parte inferiore, trasmette  piacevoli sensazioni tattili e visive, oltre a costituire un aiuto in fase  di montaggio. La volta risulta leggera ed elegante, una forma strutturalmente efficiente ed espressiva; 399 conci di pietra si sostengono a vicenda realizzando in soli 5 centimetri di spessore una piccola magia della compressione. Un fronte tecnologico, quello svizzero, che cerca di riscoprire il buono del passato per disegnare il futuro.

Atteggiamento simile ritroviamo nella proposta avanzata dalla Norman Foster Foundation che illustra un ambizioso progetto volto alla modernizzazione del territorio africano. Il team di lavoro britannico ha focalizzato la propria ricerca sulla strategia di collegamento adottabile tra diverse parti del territorio tramite l’uso di droni trasportatori. Corollario a questo sistema di scambio sono quindi le strutture che offrono riparo agli utenti di questo Drone Port chiamate, non a caso, shells. La creazione di questi spazi coperti è demandata ancora alla struttura della volta che, in questo caso, è costituita di mattoni in foglio legati da malta. Il principio guida è ancora quello dell’arco catenario (di cui Gaudí fu sommo interprete) e l’aspetto che risulta più interessante del progetto è l’assoluta minimizzazione delle centine, ridotte a semplici cavi d’acciaio che direzionano semplicemente la posa dei mattoni. Una campata di questo sistema costruttivo fa bella mostra di sé proprio davanti al Giardino delle Vergini, raccontando in maniera semplice ed immediata tutta la potenza e la versatilità di questo sistema costruttivo. Sorprendente, a dirla tutta, come proprio la fondazione di uno dei pionieri dell’architettura high tech, quale Norman Foster è stato, sappia riscoprire e valorizzare un modo di costruire così antico ed elegante.

Non è, quindi, un caso che lo stesso padiglione Italia dei Giardini sia aperto proprio da una volta in mattoni (in questo caso reticolare) dell’architetto paraguaiano Solano BenÍtez. Gli ingredienti sono tutti simili a quelli del progetto della Foster Foundation: economicità dei materiali e manodopera non specializzata. Il risultato che ne emerge è quindi simile: un’architettura di qualità a basso costo, capace di coinvolgere le persone del luogo nel processo di costruzione e diventare così anche elemento aggregativo ed identitario.

Quest’ultimo aspetto diviene centrale nell’esperimento di Warka Water, l’ambizioso progetto di Arturo Vittori per la creazione di un’architettura totemica effimera sul territorio africano. Un manufatto realizzato con materiali poveri dalla forma complessa, un’esperienza di auto costruzione (come racconta molto bene il filmato in mostra) che permette di realizzare una struttura in grado di condensare l’umidità atmosferica e raccoglierla per dissetare tutto il villaggio. Un elegante albero della vita che, anziché produrre spettacoli pirotecnici, genera preziosa acqua potabile.

Preziosa infine anche la riflessione di Liu Jiakun sullo sviluppo delle città cinesi (e non solo) ormai arrivate ad un vero punto di collasso. L’architetto propone una densificazione non più del costruito quanto dello spazio pubblico ad esso collegato. Un interessante sistema di rampe e piazze che si adagia come una coperta su di un gigantesco edificio a corte e che ne interconnette le singole porzioni. Assolutamente geniale il modello ligneo dell’edificio che con l’uso di palline d’acciaio e della gravità racconta in maniera immediata la fluidità dei percorsi e la loro intrinseca casualità. 

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Un modo divertente e immediato di raccontare un concetto profondo. Questo modello dovrebbe farci riflettere di più su tutto quello che la biennale è diventa e su quello che forse dovrebbe essere. Le stanze straripanti di plastici non sono la risposta ad una comunicazione efficace. Le pareti piene di fotografie e disegni spesso non fanno chiarezza. L’eccesso disorienta, l’accumulazione diviene nemica della comprensione. Bisognerebbe forse far riflettere gli architetti su quanto la questione esperienziale e ludica del progetto di architettura sia importante ai fini comunicativi. Una biennale che spesso finisce con l’annoiare i non addetti ai lavori e che, in realtà, dovrebbero essere i destinatari privilegiati di quel messaggio che veicola l’architettura di qualità come uno dei mezzi fondamentali per migliorare la società.